10) RIFLESSIONI SULLA VULNERABILITA'


1. Introduzione
La nostra breve esplorazione sulla vulnerabilità del vivere è certamente ben collocata all’interno di un percorso di riflessione su Nascere e morire. Come il filosofo francese Vladimir Jankélévitch (1903-1985) ha lucidamente puntualizzato, infatti, «l’uomo è fondamentalmente vulnerabile» solo perché «la morte può entrare in lui attraverso tutte le giunture del suo edificio corporeo». Il che è come dire: ogni essere vivente «nasce» vulnerabile, dal momento che fin dal suo primo istante di vita, egli è esposto al rischio radicale della «morte», la quale, del rischio è il nome più proprio.
Lo stesso significato dei termini «vulnerabilità» e «vulnerabile», del resto, ci orienta in questa direzione: vulnus, in latino, significa «ferita», e l’aggettivo «vulnerabile», di conseguenza, indica ciò che «può essere ferito, facilmente attaccato e sopraffatto», mentre se considerato in un’accezione più ampia, può dirsi di persona «molto sensibile, fragile, debole», ragion per cui le parole «vulnerabilità/vulnerabile» e «fragilità/fragile» possono valere come coppie di sinonimi. L’aggettivo «fragile», infatti, derivando dal latino frangere, che significa «spezzare, ridurre in frammenti», indica tutto ciò che può andare in pezzi, in frantumi.
Da quanto detto anche solo in forma sintetica, si possono tracciare alcune considerazioni preliminari:
1. La vulnerabilità è coestensiva dell’umano o, meglio ancora, dell’intera realtà creata. In quanto tali, ogni essere umano e ogni realtà vivente non umana, pur se in modi e in gradi diversi, sono vulnerabili e fragili; sono cioè esposti al rischio di essere feriti e spezzati nella loro integrità, a causa dei più svariati fattori esterni o interni: violenze, malattie, incidenti, perdita dell’equilibrio psichico, rottura di legami, impoverimento, ecc...
2. La vulnerabilità, in sé e per sé, non è una condizione immediatamente qualificabile eticamente, né in positivo né in negativo. Essere vulnerabile, moralmente parlando, non equivale a essere né buono né cattivo. Semmai, come diversi autori sottolineano (Emmanuel Lévinas, Paul Ricoeur, Hans Jonas), l’essere vivente, in quanto vulnerabile, è portatore di un appello alla responsabilità e alla cura di sé e dell’altro. A questo riguardo, perciò, dobbiamo prestare molta attenzione a tutti quei dispositivi linguistici che impropriamente accomunano vulnerabilità e fragilità alla colpa morale e/o religiosa.
3. La vulnerabilità, in quanto coestensiva dell’umano, non è una scoperta recente. L’essere umano è sempre stato vulnerabile, fragile, e sempre lo sarà. Al contempo, però, non è un azzardo sottolineare come i significati attribuiti alla comune condizione di vulnerabilità variano con il mutare delle epoche e delle culture. Nell’attuale contesto socio-culturale, per esempio, sembra che la vulnerabilità sia diventata una sorta di «cifra» sintetica dell’esistenza individuale e collettiva. Non a caso, la vulnerabilità è un concetto impiegato ormai abitualmente anche in chiave di analisi e di progettazione politico-sociale ed economica, ambiti dove viene a designare la concreta esposizione delle condizioni di vita individuali ai nuovi processi di impoverimento. La vulnerabilità, in questa accezione, presenta quindi il suo lato non solo individuale e privato, ma anche eminentemente pubblico, agendo da criterio ispirativo e regolativo di azioni sociali volte alla promozione e alla tutela del benessere e della dignità della persona.
4. Di vulnerabilità è intessuta la vita umana tutta. Eppure, in modo equivocabile, sono alcune esperienze umane fondamentali a rivelarne il vero volto: basti pensare ai tempi del nascere, del morire e del patire in genere. Proprio per questo, nel 1998, la vulnerabilità è stata riconosciuta come principio bioetico «propriamente europeo» dalla Dichiarazione di Barcellona, che la presenta in questo modo: (a) La finitudine e la fragilità dell’esistenza umana su cui poggia, nelle persone capaci di autonomia, la possibilità e la necessità di ogni vita morale. (b) La vulnerabilità è l’oggetto di un principio morale che richiede l’esercizio della cura nei confronti delle persone vulnerabili. Le persone vulnerabili sono quelle persone la cui autonomia, integrità e dignità possono essere minacciate. In questo senso tutti gli esseri umani, in quanto portatori di dignità, sono protetti da questo principio. Ma il principio di vulnerabilità richiede specificatamente non solo di non interferire con l’autonomia, la dignità o l’integrità degli esseri umani, ma anche che essi ricevano assistenza affinché possano realizzare il proprio potenziale. Da questa premessa ne consegue che vi sono diritti positivi per l’integrità e l’autonomia che fondano le idee di solidarietà, non discriminazione e comunità.
Dopo aver delineato i principali significati del termine «vulnerabilità», vorremmo approfondire la nostra riflessione, suggerendo una lettura di taglio prevalentemente etico-antropologico.
Vulnerabilità e fragilità, come si è visto, rivelano un tratto costitutivo dell’umano-che-è-comune (Pierangelo Sequeri). Eppure, limitandoci a questa affermazione, non abbiamo ancora risposto con la dovuta profondità all’interrogativo cruciale: che cosa significa dire che la vita è vulnerabile? In termini antropologici, evocare la vulnerabilità del vivere significa asserire che la promessa inscritta nella vita quale garanzia e custodia del senso stesso del vivere, è esposta al rischio di essere ferita, spezzata, interrotta. Il carattere autenticamente «umano» della vita, infatti, altro non è se non l’esperienza – enigmatica, ma reale – di una promessa, che interpella la coscienza a fidarsi di un senso che non solo la anticipa, ma la sostiene e la autorizza a decidersi e a rischiare la propria libertà; che la autorizza ad agire, ad amare, a soffrire, a sperare; in definitiva, a credere nella possibilità di arrivare a capo di quell’«enigmatico desiderio che fin dall’origine costituisce la segreta identità del soggetto stesso», ribellandosi, al contrario, contro il non senso e la non sostenibilità di tutto ciò che viene riconosciuto come minaccia per la consistenza e l’affidabilità della vita stessa.
Se la promessa inscritta nelle forme della vita interpella la coscienza, autorizzandola a fidarsi e a decidersi liberamente per la vita stessa, dobbiamo precisare che la figura di «coscienza» a cui ci si riferisce non indica semplicemente né una «parte», né una «facoltà», né una «funzione» della persona, bensì la sua stessa identità: l’essere umano, infatti, non ha una coscienza, ma è coscienza. Certamente, affermare di essere la propria coscienza non equivale a identificare la coscienza o il «sé» – per introdurre un termine caro a Ricoeur – con l’«io». Il «sé», infatti, diventa se stesso solo grazie alla relazione con l’«altro», una relazione che implica la scelta libera in quanto è una relazione che ha-da-essere e quindi in continuo sviluppo. Come lo stesso Ricoeur precisa nella Prefazione di Sé come un altro, il suo volume più significativo, l’alterità di cui si parla non è legata soltanto a una comparazione con il sé – se stesso somigliante ad un altro –, ma è un’alterità costitutiva della ipseità stessa, a tal punto che «l’una non si lascia pensare senza l’altra, che l’una passa piuttosto nell’altra: (…) sé in quanto… altro».
Dire che la coscienza o il «sé» sono in relazione all’«altro», però, non ci autorizza a pensare che l’«altro» sia solo il «tu» di una persona. L’«altro» è innanzi tutto il «corpo», la prima e più intima forma dell’esperienza del «sé»; in secondo luogo è il «tu» personale; in terzo luogo, il «noi», cioè le relazioni sociali, soprattutto la cultura, chiave di accesso a tutta l’esperienza umana del vivere. Precisate queste declinazioni dell’alterità, cerchiamo di riprendere il filo del nostro discorso. Se la vulnerabilità del vivere rivela la possibilità che il carattere promettente della vita sia smentito e se, d’altro canto, la porta di accesso alla promessa della vita – confermata o smentita che sia – è la coscienza, intesa ricoeurianamente come «sé» e come «altro» (corpo, tu, noi), l’essere umano accede alla propria condizione di vulnerabilità attraverso la mediazione del corpo, del tu e del noi.


2. Alla ricerca del senso


Dopo aver delineato i principali significati del termine «vulnerabilità», vorremmo approfondire la nostra riflessione, suggerendo una lettura di taglio prevalentemente etico-antropologico.

2.1. La vulnerabilità del vivere


Vulnerabilità e fragilità, come si è visto, rivelano un tratto costitutivo dell’umano-che-è-comune (Pierangelo Sequeri). Eppure, limitandoci a questa affermazione, non abbiamo ancora risposto con la dovuta profondità all’interrogativo cruciale: che cosa significa dire che la vita è vulnerabile? In termini antropologici, evocare la vulnerabilità del vivere significa asserire che la promessa inscritta nella vita quale garanzia e custodia del senso stesso del vivere, è esposta al rischio di essere ferita, spezzata, interrotta. Il carattere autenticamente «umano» della vita, infatti, altro non è se non l’esperienza – enigmatica, ma reale – di una promessa, che interpella la coscienza a fidarsi di un senso che non solo la anticipa, ma la sostiene e la autorizza a decidersi e a rischiare la propria libertà; che la autorizza ad agire, ad amare, a soffrire, a sperare; in definitiva, a credere nella possibilità di arrivare a capo di quell’«enigmatico desiderio che fin dall’origine costituisce la segreta identità del soggetto stesso», ribellandosi, al contrario, contro il non senso e la non sostenibilità di tutto ciò che viene riconosciuto come minaccia per la consistenza e l’affidabilità della vita stessa.

2.2. Identità e coscienza

Se la promessa inscritta nelle forme della vita interpella la coscienza, autorizzandola a fidarsi e a decidersi liberamente per la vita stessa, dobbiamo precisare che la figura di «coscienza» a cui ci si riferisce non indica semplicemente né una «parte», né una «facoltà», né una «funzione» della persona, bensì la sua stessa identità: l’essere umano, infatti, non ha una coscienza, ma è coscienza. Certamente, affermare di essere la propria coscienza non equivale a identificare la coscienza o il «sé» – per introdurre un termine caro a Ricoeur – con l’«io». Il «sé», infatti, diventa se stesso solo grazie alla relazione con l’«altro», una relazione che implica la scelta libera in quanto è una relazione che ha-da-essere e quindi in continuo sviluppo. Come lo stesso Ricoeur precisa nella Prefazione di Sé come un altro, il suo volume più significativo, l’alterità di cui si parla non è legata soltanto a una comparazione con il sé – se stesso somigliante ad un altro –, ma è un’alterità costitutiva della ipseità stessa, a tal punto che «l’una non si lascia pensare senza l’altra, che l’una passa piuttosto nell’altra: (…) sé in quanto… altro».

2.3. La coscienza e l’«altro»

Dire che la coscienza o il «sé» sono in relazione all’«altro», però, non ci autorizza a pensare che l’«altro» sia solo il «tu» di una persona. L’«altro» è innanzi tutto il «corpo», la prima e più intima forma dell’esperienza del «sé»; in secondo luogo è il «tu» personale; in terzo luogo, il «noi», cioè le relazioni sociali, soprattutto la cultura, chiave di accesso a tutta l’esperienza umana del vivere. Precisate queste declinazioni dell’alterità, cerchiamo di riprendere il filo del nostro discorso. Se la vulnerabilità del vivere rivela la possibilità che il carattere promettente della vita sia smentito e se, d’altro canto, la porta di accesso alla promessa della vita – confermata o smentita che sia – è la coscienza, intesa ricoeurianamente come «sé» e come «altro» (corpo, tu, noi), l’essere umano accede alla propria condizione di vulnerabilità attraverso la mediazione del corpo, del tu e del noi.


2.3.1. Il corpo

Seppure in modo enigmatico, ciascuno fa esperienza di «altro» da sé nel proprio corpo. Nel corpo «ci» si ritrova, visto che il corpo «ci» precede e «ci» anticipa in qualche modo. È solo grazie al corpo, infatti, che ciascuno «si» scopre come un essere che nasce, cresce, invecchia, muore: come un essere che agisce e patisce, che sente dolore e piacere, che vive e «si» vive come maschio o femmina, sano o malato, disabile o agile e potente. E in effetti, normalmente, la relazione con il proprio corpo è quanto di più spontaneo un soggetto possa vivere. Questo «altro» che è il corpo, del resto, è anche «me», «sono io». Sono io che nasco e muoio, mi ammalo e guarisco, agisco e patisco, provo dolore e piacere... Tutto, a questo livello, sembra filare via liscio. L’esperienza del proprio corpo, del corpo che «io sono», è tra le più scontate per un soggetto, ma solo fino a un certo punto. Fino al punto, cioè, in cui anche un solo dettaglio del corpo viene a sfigurare la consueta rappresentazione di noi stessi. Basta poco: un rigonfiamento, un ronzio, un nodulo, un affanno respiratorio, un tremore inconsulto... e ci ritroviamo in preda all’angoscia, tra le macerie del nostro precedente e (ora non più) tranquillo ordine del mondo. È così che ci si scopre vulnerabili. Proprio com’è capitato al protagonista di uno splendido romanzo di Philip Roth: «La mattina dopo, guardandosi allo specchio del bagno vide che metà del suo viso non era più sua. L’uomo che il giorno prima assomigliava a lui, ora non assomigliava più a nessuno...».


2.3.2. Il «tu»

La coscienza del corpo non è mai separabile dalla relazione con il «tu» dell’altro. La presa di coscienza del corpo come «proprio» procede di pari passo alla relazione instaurata con l’altro da sé. L’identità di sé si costituisce solamente nella relazione ad altri. Tra me e me, infatti, c’è l’incontro e lo sguardo dell’altro. Nel rapporto tra sé e l’altro la coscienza riconosce un legame di reciproco «indebitamento»: un debito che, in origine, non umilia né mortifica, bensì costituisce e gratifica. È questa, del resto, l’evidenza inscritta in quella «forma originaria del vivere che è l’essere generati»: io «mi trovo» nella vita, sono stato «messo al mondo» da altri, sono «in debito» di me verso altri da me. Nell’essere generati da altri, nell’essere costituiti come sé nel legame con altri, pertanto, si instaura la possibilità della prima, decisiva percezione del carattere promettente del vivere, di cui l’infanzia è simbolo ed emblema. Come accade a proposito del corpo, però, anche l’originaria «rivelazione» della promessa inscritta nella vita può essere smentita e contraddetta, quando a essere ferita, colpita e spezzata è l’intima trama della relazione che ci costituisce come esseri umani. Ecco l’altro volto inquietante, doloroso, destabilizzante, della vulnerabilità del vivere. Con parole estremamente nitide, Massimo Recalcati lo descrive così:
Il legame familiare non deriva dal sangue, ma da un atto simbolico che assume tutte le conseguenze di un evento biologico come quello di una nascita. Come rendere un evento puramente biologico – la nascita di una vita – un evento umano? Come si umanizza la vita? Il legame familiare risponde innanzitutto a questa grande questione. (…) C’è legame familiare dove c’è presenza di questo atto di assunzione simbolica. In questo senso la paternità, come affermava Françoise Dolto, è necessariamente un atto che infonde a un evento biologico – la nascita di una vita – il carattere di un evento umano: l’evento della vita che si umanizza attraverso la sua adozione simbolica.
Nutrire il desiderio del nuovo venuto con il proprio desiderio è un compito essenziale del legame familiare. Senza questa iscrizione nel desiderio dell’altro la vita appare senza radici, senza legame con l’altro, smarrita, disorientata, spesso destinata alla rovina e alla dissipazione. La clinica psicoanalitica conferma sistematicamente questo dato: la vita che non è stata adottata simbolicamente dal desiderio dell’altro, la vita che è stata respinta, rifiutata, vissuta come un fastidio, un disturbo, uno scherzo del destino, è una vita che tenderà alla rovina. È una vita che potrà essere salvata solo incontrando un altro legame, non di sangue, un legame che renda possibile una nuova iscrizione simbolica nel desiderio dell’altro.

Il «noi»


Il terzo versante della nostra riflessione riguarda il «noi», ovvero l’intreccio delle relazioni sociali. Formulata in estrema sintesi, la tesi con cui confrontarci è la seguente: l’uomo è vulnerabile (anche) perché è esposto all’azione libera del suo simile. E il suo simile, l’altro essere umano, può agire contro di lui, lo può ferire, lo può trattare con violenza fino al punto da esporlo al rischio della morte.
Pensata in termini filosoficamente compiuti da Thomas Hobbes (1588-1679), questa prospettiva pone il bisogno di sicurezza sociale a fondamento della convivenza tra gli uomini, i quali, al fine di evitare la guerra di tutti contro tutti, accettano reciprocamente di rinunciare a porzioni della propria libertà di agire. Al contrario di quanto pensava Aristotele con la sua visione dell’uomo animale sociale, per Hobbes «gli uomini non traggono piacere dalla compagnia reciproca, ma al contrario molta molestia, se non c’è un potere capace di tenerli tutti in soggezione».
Nella storia del pensiero, non sono mancati i tentativi di proporre un’alternativa alla teoria hobbesiana. John Locke (1632-1704), per esempio, tornando a descrivere l’uomo come creatura socievole e razionale, sostiene che egli si protegge dalla vulnerabilità insita nella sua costitutiva esposizione al mondo e alle sue minacce mediante la proprietà, che lo stato ha il dovere di salvaguardare. Per il filosofo inglese, «il grande e principale fine per cui gli uomini si uniscono in stati e si assoggettano a un governo, è la salvaguardia della proprietà». In tempi più recenti, Marcel Mauss (1872-1950) ha però dato il via a un movimento di pensiero radicalmente alternativo, dove la vulnerabilità non è più interpretata alla stregua di una condizione di fragilità da contenere, ma come l’opportunità e la ragione stessa del legame sociale. Ad accompagnare gli uomini nel processo di costruzione delle società arcaiche – sostiene Mauss nel suo celebre Saggio sul dono– è il triplice obbligo di donare, di ricevere e di ricambiare. In questa linea, autori contemporanei come Alain Caillé e Jacques Godbout hanno tentato di elaborare un vero e proprio paradigma del dono, capace, a loro giudizio, di mostrare come la generazione del legame sociale non avviene a partire dagli individui colti come entità tra loro separate e in costante competizione, né a partire da un’idea di società pre-esistente e totale. Il legame sociale si genera invece dall’insieme delle interrelazioni umane mediante le quali gli uomini si legano gli uni agli altri, proprio perché vincolati da un debito positivo reciproco, motivato, in ultima analisi, proprio dalla comune condizione di vulnerabilità. Entro questo orizzonte di pensiero, allora, riattivare la consapevolezza della vulnerabilità propria e di tutti rappresenta l’unica via di uscita dalle patologie che minacciano la sopravvivenza del legame sociale e che trovano effettiva realizzazione nelle ambigue figure dell’individuo homo oeconomicus da un lato e dell’individuo consumatore e spettatore dall’altro.

3. Conclusioni
Giunti al termine della nostra riflessione, pur senza prestare il fianco a una sorta di elogio ingenuo e irresponsabile della vulnerabilità, crediamo però opportuno ribadire la necessità di lasciarci istruire da questo volto dell’umano-che-è-comune, superando la tentazione di rimuoverlo, di negarlo, di proiettarlo fuori di sé e solo sugli altri. La vulnerabilità, in tutte le sue manifestazioni, non perde mai del tutto i suoi tratti enigmatici, dolorosi e rischiosi, ma pro-voca a volere e in-voca il volere, pro-voca e in-voca la decisione e la responsabilità, pro-voca e in-voca cura, pazienza e speranza.
– La cura, intesa non solo come erogazione di cure, bensì come forma fondamentale di ogni relazione e come disposizione a fare alleanza con sé e con l’altro.
– La pazienza, virtù pienamente attiva implicante la capacità di lasciarsi formare da ciò che si patisce; virtù intrecciata con l’ascolto, la partecipazione e il coraggio di affrontare gli eventi imprevisti come un’occasione da vivere e come un tempo da accogliere in modo pieno e dignitoso.
– La speranza, virtù di qualità teologale, speranza-in oltre che speranza-che, speranza in grado di alimentare e di sostenere la «difficile fede» che la promessa della vita non è stata vana.


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